Quando dal fallimento non c’è nulla da imparare

L’idea di questo articolo nasce da una piacevolissima chiacchierata virtuale con Monja Da Riva, in cui si discuteva del diritto di rivendicare i propri fallimenti, senza che ad essi segua necessariamente una qualche inaspettata e piacevole scoperta – magari una di quelle che ti cambia la vita, o ti mette finalmente sulla strada giusta.

Insomma, quei fallimenti che fanno male e basta, da cui non c’è nessuna lezione da imparare, che si digeriscono a fatica e che, semplicemente, accadono, nella vita.

Un’esperienza – quella di imbattersi in qualche fallimento o scelta sbagliata – che probabilmente in tante conosciamo e a cui ritengo sia importante dare spazio, per ricordarci che non c’è un solo modo di affrontare le esperienze che ci capitano o di cui noi stesse siamo artefici.

Che migliorare, migliorarsi, scovare il positivo nelle storie dolorose o trasformare gli errori in salvezze e i limiti in punti di forza, ecco, non è sempre possibile. Anzi, in molti casi è anche controproducente.

Il peso delle parole con cui ci raccontiamo

Nel linguaggio delle partite iva sono frequenti parole come successo o, di contro, fallimento.

Le usiamo per etichettare gli obiettivi che ci siamo prefisse e abbiamo poi effettivamente realizzato, o al contrario, quelli non raggiunti: un servizio che non ha riscosso l’interesse che speravamo, un lancio promozionale terminato senza alcun acquisto, un progetto abbandonato a metà strada.

Del resto, chi ha un’attività in proprio deve necessariamente fare un piano, progettare, prevedere opzioni e quindi procedere dandosi degli obiettivi, perché questa resti in piedi e progredisca. Tenere il focus sugli obiettivi è utile, quindi; ma incasellare quegli obiettivi in categorie assolute, può diventare il modo con cui a lungo andare rischiamo di definire anche chi siamo, e non solo quello che facciamo.

In fondo, le parole che usiamo per definire le nostre azioni hanno un peso sull’idea che coltiviamo di noi stesse.

Se collezionare una serie di successi ci aiuta a fare scorta di soddisfazioni, non solo in termini economici ma anche di efficacia personale, e a nutrire un’immagine di noi come persone capaci, competenti, in grado di farcela, che impatto avrà uno o più fallimenti sulla nostra autostima?

Ecco, ho il sospetto che i tentativi ostinati di trasformare i fallimenti in lezioni da imparare, abbiano a che fare con tutto questo. Ossia, con lo sforzo di preservare il proprio valore e proteggersi dalle emozioni di frustrazione, dispiacere, preoccupazione che è fisiologico provare quando i nostri piani non vanno come avremmo voluto.

Fallibili si, fallite no

Quando dinanzi a un errore di percorso o un mancato lieto fine ci sentiamo delle fallite, diventiamo il nostro stesso errore. In altre parole, facciamo confusione tra quello che siamo e quello che scegliamo, facciamo, sbagliamo, come se il nostro valore fosse determinato da quanto siamo brave, o colte, o ricche, o ammirate per questo.

Certo, come ho già sottolineato più volte, la società in cui viviamo ci ricorda ogni giorno che per valere dobbiamo produrre valore. E il risultato rischia di essere che procediamo, specialmente nella nostra attività, sotto la costante spinta di fare bene, meglio, sempre.

Ognuna di noi, in realtà, sa bene che non è affatto così. Ne è la prova il fatto che quando una persona amica o collega ci racconta di sentirsi una fallita, siamo pronte a ricordarle la differenza tra sbagliare e sentirsi sbagliate. Che sbagliare è umano. Che gli errori sono solo errori.

In effetti, come persone siamo tutte fallibili, ossia tutte potenzialmente in grado di sbagliare, in modo più o meno lucido e consapevole. Io, ad esempio, oggi mi guarderei bene dallo scrivere un articolo in cui esorto a imparare 5 lezioni di vita (felice) dai propri fallimenti.

Eppure, 5 anni fa ero davvero convinta che usare quelle parole, a sostegno di una certa visione (imparare a tutti i costi qualcosa di buono), avesse un senso e potesse essere di aiuto.

Nessuna lezione (di vita), solo vita

Sono ancora dell’idea che alcune scelte sbagliate possano rivelarsi utili, nella misura in cui ci mettono davanti a informazioni che probabilmente avevamo sottovalutato e che in futuro, invece, potremmo ricordare di tenere in considerazione, qualora se ne presentasse l’occasione.

In fondo, è questo il senso del detto “sbagliando si impara”, no?
Così, se ad esempio un progetto su cui abbiamo investito tempo, energie, soldi, non si evolve come vorremmo, potremmo andare alla ricerca di quello che non funziona e tentare di farlo funzionare.

Ma ad alcuni errori non c’è rimedio. Alcune scelte rivelatesi poi sbagliate sono solo scelte che probabilmente non faremmo di nuovo, ma questa consapevolezza non elimina le conseguenze che nel frattempo quelle hanno provocato.

Non tutti i percorsi falliti si trasformano in percorsi di rinascita. A volte, sono solo situazioni di cui prendere atto, se vogliamo. Situazioni per cui possiamo sentirci deluse, arrabbiate, abbattute, che possiamo darci il tempo di elaborare e con cui possiamo far pace. Così: vivendo. Senza imparare nulla di nuovo.

Anzi, forse sì: potremmo scoprire che gli errori che facciamo non rappresentano il metro di misura del nostro valore come persone.

3 domande per guardarsi dentro

Allora, piuttosto che andare oltre quelli che definiamo fallimenti, cercando soluzioni, rimedi e risposte, fermiamoci e facciamoci domande.

  • Quanto mettiamo in conto di sbagliare o che i nostri piani potrebbero non andare come vorremmo?
  • Quanto ci concediamo di vivere le emozioni più scomode e spiacevoli, dandoci il tempo di digerirle e dar loro un senso per noi e la nostra storia di vita fin qui?
  • Quanto valore riconosciamo a noi stesse, a prescindere dai risultati che otteniamo?

Spero che le riflessioni e gli spunti offerti in questo articolo possano tornarti utili. Se vorrai dirci la tua, ci troverai felici di starla a sentire.

Liria Valenti

Sono una psicologa e psicoterapeuta: accompagno le persone in percorsi di psicoterapia, aiutandole a sentirsi padrone della loro vita e a fare scelte più consapevoli e felici. Amo tante cose del mio lavoro, ma quello che mi piace di più è: ascoltare, (ri)costruire insieme, emozionarmi.

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