Da quando abito in un quartiere di Milano che assomiglia più a un borgo che a una metropoli sono tornata a far la spesa nei negozi e al mercato, sia per la qualità dei prodotti sia per il piacere di un servizio pensato bene (e anche perché i supermercati in questa zona spesso sono più costosi dei negozietti, ma questo è un altro discorso). Essendo ghiotta di insalata e verdura il mio negozio preferito è il fruttivendolo, un negozio piccolo e affollato che normalmente mi avrebbe abbastanza respinto, non fosse stato per due micro-momenti che mi hanno trasformata in una cliente disposta a tutto pur di far la spesa lì. Il primo è stata una battuta del titolare che mi disse, out of the blue: “con tutta la fatica che faccio a trovare pomodori buoni non è che poi me li mette in frigo?”. Per una come me, molto schiva e convinta di essere invisibile e illeggibile, un’epifania: ci sono ancora negozianti che sanno chi hanno davanti senza essere invadenti. Ormai “convertita”, noto il secondo particolare: quando paghi con carta di credito (altro vantaggio), in una situazione scomoda (cassa, buste, borsa, poco spazio), il titolare per prima cosa mi restituisce la carta di credito e aspetta che io la rimetta nel portafoglio. Un micro-gesto di grande sensibilità, un’attenzione così precisa da farmi chiedere perché non sia già uno standard.
Ora, è chiaro che io, come tutti, da un negozio mi aspetto prima di tutto qualità dell’offerta a prezzi adeguati; quello che voglio sottolineare è quanto pesi nel quadro anche l’attenzione a questi dettagli, sia nelle interazioni fisiche sia nelle interazioni digitali. Se tutto si gioca in pochi istanti questi istanti devono essere curati o con una sensibilità personale (è il caso del mio fruttivendolo e di molti negozianti di successo) o con un’accurata progettazione. Passando dalla sensibilità personale (anche per egoismo, per stare meglio lavorando) alla progettazione si scopre che questo approccio ha un nome ed è concretizzato in una serie di pratiche che vanno sotto il nome di Service Design o di Service Design Thinking.
Il redesign del modo in cui progetto la comunicazione dei miei clienti è frutto di un mix di sensibilità e progettazione, esattamente come la scelta di fare i corsi con meno di dieci iscritti nella mia casa-studio e non in una sala riunioni. Quando invece devo prendere uno spazio più grande, pretendo luce naturale, spazi comuni gradevoli e una certa aria di vacanza, perché chi sceglie di iscriversi a un mio corso deve avere la sensazione di prendersi una giornata per sé.
Siamo abituati all’idea di progettare un prodotto, una casa o un locale, ma l’idea di dover progettare un servizio immaginando come verrà usato è ancora molto lontano dalla quotidianità delle persone e di molte aziende. È una competenza sempre più importante qualunque sia il nostro lavoro, perché, come scrivevo nell’articolo sui superpoteri del Design Thinking, la Sharing Economy, in realtà, è una Service Economy: il punto non è la condivisione, ma l’attenzione all’uso e non più al possesso. Come spiega bene Marc Stickdorn stiamo passando dal dare importanza al possesso di un prodotto al dare importanza al servizio incorporato in quel prodotto e quindi dal valore di scambio al valore d’uso.
Non mi interessa possedere una Mini, ma mi fa piacere poterla guidare ogni tanto: ecco che BMW, invece di vendermela, me la mette a disposizione con Drive Now. Il valore d’uso della Mini non è più solo guidarla ma anche trovarla, aprirla, pagare, riconsegnarla. Il tutto in modo estremamente più comodo, piacevole e gradevole del noleggio tradizionale: poter aprire una macchina con il telefono senza dover aprire ogni volta una pratica è incredibilmente più comodo.
Sempre Stickdorn ci spiega che questo approccio mette insieme molte buone pratiche già consolidate, per esempio, per quanto riguarda il digitale, l’usabilità dei servizi: “il Service Design Thinking è un linguaggio comune” tra molte competenze diverse, un filo conduttore che permette al freelance, all’imprenditore e al comunicatore di non perdere mai di vista l’obiettivo principale e cioè la felicità del cliente finale in qualsiasi momento del processo di scoperta, scelta, acquisto, utilizzo e racconto del valore d’uso di un prodotto.
Io, come sempre, applico una mia versione mediterranea del Service Design, cioè un po’ più cialtrona ma anche – spero – più applicabile per la nostra cultura, che è meno schematica e più sintetica di quella anglosassone. In estrema sintesi ecco le cinque cose che ho mutuato da questo metodo e che mi permettono di applicarlo anche quando ho pochissimo tempo:
- curiosare sempre tantissimo nelle vite dei nostri clienti, fare domande, seguirli sui social media, ascoltare senza giudicare quello che dicono, chiedono, odiano
- entrare nei panni del cliente (o del cliente del mio cliente) usando una versione narrativa della tecnica delle personas. Non mi interessa sapere cosa fa e che comportamenti ha il mio cliente ideale, io mi chiedo, ossessivamente, come faccio a migliorare la sua vita fin dalla comunicazione. La comunicazione, oggi, deve darci un piccolo istante di piacere, altrimenti è solo fastidio inutile.
- chiedersi (e chiedere) dove i nostri clienti ci scoprono: in un modo dove i touchpoint proliferano, qual è il primo? E come facciamo a renderlo talmente piacevole da far venire voglia di averne ancora?
- identificare i momenti glad (il piacere), sad (la mestizia) e mad (la rabbia) del il processo d’acquisto e di esperienza della nostra offerta. Lavorare sugli ultimi due, accettando che non possono essere eliminati, ma migliorati sì, anche solo ammettendoli.
- avanzare sempre per micro-cambiamenti, facili da fare e da testare. Riconosci un test così: è qualcosa che se va male non fa danni.
Il primo cambiamento che ti propongo è provare a lavorare in questo modo la prossima volta che devi progettare qualunque cosa, anche della tua vita quotidiana. Curiosa, immedesimati, chiediti da dove parte tutto, identifica gli stati d’animo passo passo e poi provaci