Una volta compreso che cos’è il Design Thinking è importante capire se, come e quando possiamo usarlo per la nostra attività e con i nostri clienti. A settembre scrivevo “vedremo come applicare questi passaggi e, soprattutto, come farli nostri, perché questo processo funziona tanto meglio quanto più riusciamo a personalizzarlo.”
Il primo cliente a cui applicare questo metodo, infatti, sei tu stessa. Non solo per fare pratica, ma soprattutto perché le prime a farci prendere dalla routine senza accorgercene e quindi a entrare in “>conventional mode” siamo noi. Per uscirne e migliorare il nostro modo di lavorare e le nostre vite abbiamo bisogno dei tre superpoteri del Design Thinking (secondo me).
La Beginner’s mind
“Nella mente del principiante ci sono molte possibilità, in quella da esperto poche.” Così scrive Shunryū Suzuki, monaco e insegnante buddista giapponese, nel suo libro Mente Zen, Mente di principiante. Puoi non essere interessata alla meditazione, allo zen o a pratiche di consapevolezza simili, ma questo non ti impedisce di applicare subito a te stessa e al tuo lavoro questa piccola magia. Dimentica, cioè, tutto quello che sai. Guarda con occhi nuovi, ingenui e puliti tutto quello che fai. Se non sai come si fa qualcosa puoi reinventarlo e una volta che l’hai visto per la prima volta, con occhi diversi, puoi migliorare il tutto con la tua esperienza, che a questo punto torna preziosa.
Lo “Yes, and”
Uccidi l’avvocato del diavolo. Questo lo dico io, non un monaco buddista, e ti invito a farlo ogni volta che un’obiezione rischia di sabotare un pensiero innovativo. Non ti sto invitando a eliminare il pensiero critico dal tuo modo di lavorare, ma di farlo dopo, non all’inizio. Quando cerchi di trovare nuove idee o modi diversi di fare qualcosa impegnati a trovare centinaia di idee, perché così sarà più facile averne un paio anche fattibili. Ne basta una, in realtà, ma non la prima che ti viene. Il superpotere che preferisco è il potere di dire “e” invece di “ma”. Ogni volta che pensi, scrivi, dici “MA” prova a sostituirlo con “E”. È una congiunzione che apre, non chiude, che stimola a passare oltre, a spararla grossa e aiuta a liberarti della paura.
La visione d’insieme
Nella puntata precedente scrivevo: “non serve saper disegnare per progettare, ma è molto utile pensare e prendere appunti in modo visivo, non letterale”. Ti invitavo a girare il foglio in orizzontale, che in inglese si chiama “landscape”, cioè panorama. Il terzo superpotere è la visione d’insieme, cioè: passa dagli elenchi alle mappe. Passa dai ritratti (in inglese l’orientamento verticale si chiama “portrait”) ai panorami. Allarga lo sguardo. Non limitarti a guardare bene, guarda tanto, guarda oltre, spingiti lontano. Puoi usare strumenti come Coggle, per fare delle vere e proprie mappe concettuali, oppure andare a mano libera dove e come vuoi. Io scrivo sui tavoli, sugli specchi, sui vetri (ci sono pennarelli cancellabili a pochi euro). Scridisegno, disegno con le parole, e mentre lo faccio riconfiguro il mondo, il mio mondo interiore e poi quello intorno.
Un esempio concreto
Due anni fa ero molto insoddisfatta del processo di gestione dei clienti nel mondo della comunicazione. Il “conventional mode” di questa pratica è molto semplice e sembra l’unico possibile. Vai da un cliente, lui ti racconta quello che vuole, tu cerchi di avere più informazioni possibile (il “briefing”), tu torni a casa, in studio, in agenzia, insomma, dove lavori e imposti un “progetto” sulla base di quello che ti hanno raccontato. Prepari un documento, lo impagini, cerchi di definire bene tutto (le attività, i tempi, i costi, il chifacosa) e poi glielo mandi o glielo presenti. Il cliente dice di sì o di no, chiede un pezzo di una proposta e un pezzo di un’altra, tira sul prezzo, raddoppia quello che devi fare tu, si inizia e, di solito, la montagna del progetto partorisce il topolino della realizzazione.
Non ne potevo più. Risultati irrilevanti e io depressa, tanto lavoro per far la fiera dell’inutilità. Il mondo in cui io faccio comunicazione non assomiglia più a quello in cui questo processo è stato messo a punto, perché era un mondo in cui era possibile e forse anche desiderabile un vero outsourcing. Oggi no: oggi il cliente e l’azienda sono direttamente coinvolti nella comunicazione e se non lo sono devono esserlo.Ho preso i miei tre superpoteri, ho fatto piazza pulita di tutto quello che sapevo, ho cominciato ad associare idee invece di auto-censurarle e le ho messe tutte in una mappa. Il risultato sono i miei kit (e ne mancano ancora un paio), in particolare quello che ho chiamato Buoni Propositi. Il cuore del nuovo processo è che non ci sono più briefing o presentazioni: iniziamo a lavorare insieme al progetto fin dal primo minuto, perché solo così il progetto nasce dalla vera cultura aziendale e non dalla testa del creativo, che diventa un facilitatore del processo, non l’autore. Da quando lavoro così io sono molto più felice e i clienti, mi sembra, pure. I progetti sono meno wow, perché non devono più sedurre nessuno, ma nascono già fattibili.
Funziona con tutti i clienti? No, qualcuno vuole ancora farlo all’antica. Alla fine tutto costa molto di più e, secondo me, vale molto di meno. Sto lavorando per convincere anche loro 🙂
Nel prossimo (e ultimo) articolo vediamo come usare il Design Thinking per riprogettare i servizi, fisici o digitali: una competenza estremamente utile perché la Sharing Economy, in realtà, è una Service Economy. Se nel frattempo vuoi fare pratica l’8 novembre c’è il mio corso di Design your Life (i docenti siamo io, Filippo Pretolani e lo psicoterapeuta Mauro Pellegrini. Se sei arrivata fin qui usa il codice sconto “primavitamina”.
Comments are closed.