C’è bisogno di fatica. Per essere felici, intendo.
Mi ribattono che: se la felicità deve essere faticosa, non serve a niente.
Davvero?
Non conosco cose facili che diano felicità duratura. Se penso a tutto ciò che facile, mi dico: questo possono averlo tutti.
La felicità non è un’esclusiva?
È tutta una questione di atteggiamento: attesa o azione?
C’è chi attende la felicità come qualcosa di facile, che arriverà spontaneamente, indipendentemente dalle proprie scelte. C’è chi cerca la felicità come azione, chi ama la fatica necessaria a raggiungere i propri risultati.
Mi capita spesso di dire: per cambiare bisogna cambiare.
Mi sono iscritta ad un’associazione commercianti in cui combatto per il cambiamento: se le cose vanno male, l’unica strada è cambiare.
Ma l’obiezione è sempre la stessa: eh ma tu non sai cosa significa avere un’attività (non lo so?), eh ma tanto non cambia niente, eh ma un giorno ci abbiamo provato a restare aperti la sera, eh…
C’è quasi una dose di fatica minima, una soglia ritenuta comprensibile: sto già facendo fatica, sto già facendo il massimo possibile.
Ma quando il massimo possibile non è sufficiente, voi cosa scegliete per la vostra vita?
Continuare a faticare il massimo possibile senza cambiare il risultato, o cambiare fatica?
Me lo domando.
Ognuno ha una sua risposta, perché non c’è una felicità universale, e non c’è una fatica universale.
Ma in un periodo di crisi, soprattutto, non riesco mai a rassegnarmi alla realtà attuale. Non riesco a credere che nulla possa essere cambiato, che la vita sia immobile, che il commercio sia immobile, che fare solo un passo in un’altra direzione non possa essere conveniente.
Io dico che per cambiare bisogna cambiare.
Per cambiare la propria situazione professionale (pure quella personale), bisogna trovarsi una fatica: mirare ad un obiettivo, agire, tornare ad essere attivi con la mente, restare lucidi e nello stesso tempo osare una follia possibile, amare la propria fatica come un mezzo per raggiungere il proprio obiettivo.
Fare fatica per cambiare, procedendo in avanti, con gli occhi nel sole.
Non la fatica di chi annaspa per restare a galla fermo nello stesso punto.
Voi ce l’avete una fatica? È una fatica che procede in avanti?
È una cosa bella.
Bello Barbara :).
A me la fatica non piace per niente, per dire. Però ne faccio tanta e mi aspetto risultati che io percepisca come congrui.
Quello che serve, secondo me, è fare tabula rasa delle metriche convenzionali e inventare le proprie, e in base a quelle misurare il proprio lavoro. Per esempio: se mi racconto che la metrica del lavoro libero professionale è un buono stipendio, e per buono stipendio intendo, che ne so, quello che convenzionalmente è considerato un buono stipendio (3 mila euro puliti?), ma poi nel mio cuore in realtà faccio il lavoro professionale per, che ne so, perché in azienda la mia creatività è mortificata, ecco, allora dovrò valutare il mio lavoro secondo questa metrica e chiedermi: la mia creatività è ancora mortificata? No? Guadagno quello che mi serve per giustificare il lavoro anziché il riposo? Sì? Ecco, allora ho raggiunto il mio obiettivo anche se non guadagno 3 mila euro.
Penso ci siano due fatiche: quella inutile, che anche io come te proprio non sopporto; e quella che è finalizzata a migliorare la propria vita.
Esempio di fatica inutile: stirare, fare i letti, preoccuparsi del giudizio altrui, sforzarsi di piacere agli altri più che a se stessi.
Qui io pensavo solo all’idea della fatica, che poi potrei benissimo chiamare ‘obiettivo’, e sarebbe la stessa cosa. Un obiettivo da raggiungere, professionale e personale, che si può ottenere solo facendo un’azione, e non quindi attendendo che arrivi da solo.
Barbara Damiano, sei la mia filosofa concreta preferita. Io la mia fatica l’ho trovata (e faccio pure fare un po’ di fatica in più a chi mi sta vicino) però ne vale la pena. Ciaoo!
Ho iniziato a capire negli ultimi anni che la felicità ha molto a che fare con l’essere soddisfatti di sé e il sentire che si sta andando da qualche parte, e che entrambe queste cose hanno molto a che fare con il lavoro… Lavoro che sia sensato per noi, ma anche che ci imponga impegno e fatica, perché la noia e la superficialità del lavoro malfatto non danno alcuna soddisfazione. Grazie per avermelo ricordato!! 🙂
Anche io collego molto la ‘fatica’ con la realizzazione di sé, personale e professionale. Poi io sono una sostenitrice del lavoro delle donne (non a caso ho aderito a C+B), anche a costo di ripetermi e diventare antipatica: le donne devono lavorare. Devono realizzarsi anche professionalmente.
Io sono ogni giorno a contatto con mamme, e pensare che una donna creda che essere mamma sia sufficiente alla sua vita, non mi va giù. Chiaro che ognuno sceglie ciò che vuole, ci mancherebbe… ma fare la mamma non è un lavoro. E’ impegnativo, ma non è un lavoro.
Noi donne secondo me certe volte siamo bravissime o a caricarci troppo di impegni, o a trovare l’alibi per non avere alcun impegno.
Interessante quello che scrivi! Io figli per ora non ne ho, ma nel breve futuro mi piacerebbe averne. Certo che per me le due cose sono diverse e parallele: per come la vedo io un figlio soddisfa bisogni diversi da quelli che soddisfa il lavoro.
Poi, ognuna è fatta a modo suo e magari c’è chi si realizza davvero facendo la mamma e la moglie. A me, credo, non basterebbe 🙂
Quanto sono d’accordo Barbara! a me sembra sempre di non aver faticato abbastanza… anzi sono convinta che ci sono sempre milioni di strade che possiamo percorrere ancora, basta saperle trovare… con fatica!
Un bellissimo articolo, e in una giornata come questa mi ci voleva proprio! Grazie! 🙂
Da quando sono disoccupata, mi occupo maggiormente delle cose che mi piacciono e faccio il doppio, se non il triplo, della fatica che facevo al lavoro, ma vado a dormire contenta perchè bisogna amare e rispettare la propria fatica. Bel post, bello spunto, siete quello di cui ho bisogno in questo momento. Leggo i vostri post ogni giorno e mi sento meno pazza…un abbraccio a tutta la redazione.