Trump ha vinto le elezioni. E io l’ho presa male.
Ho frignato un po’, tanto.
Ho frignato ancora di più quando Hillary Clinton ha detto che non finisce qui, che lei ci ha provato. Che ora tocca a noi provarci. Poi ho smesso di frignare e l’ho presa in parola, che come dice un tweet ancora attuale, 1 donna ogni 3 giorni in Italia muore uccisa da un uomo che conosce.
Allora ho pensato che una rubrica con la parola femminista nel titolo ci stava e miss Marano è stata subito d’accordo. Ecco l’angolo del freelance femminista, una rubrica che ci tiene a parlare di femminismo con maschi e femmine, freelance e non. Una rubrica rispettosa nei toni e nei modi, fatta della solita intervista a persone diverse. Una rubrica che si chiede, come spiega bene la giornalista inglese Caitlin Moran, come si fa a essere donne e a dire “non sono femminista” e anche – aggiungo – come si fa a essere uomo e a dire “non sono femminista”? Questa rubrica ci vede tutti come esseri umani, che la parità di genere è un problema di tutti, per diventare come ha detto meglio di me l’attrice inglese Emma Watson “la versione più vera e completa di noi stessi”.
Oggi intervistiamo Mariachiara Montera
Descriviti.
Sono una consulente di web marketing nel settore food e turismo: credo che cambiare spesso sia l’atto più coerente che puoi fare per essere serena.
Cosa significa per te femminismo? Quanto pensi c’entri il sesso, i peli, i lavori domestici, i commenti sul fisico?
Per me significa una continua rieducazione che è iniziata a 15 anni con la lettura di uno dei primi libri sul gender: lo pubblicava Baldini & Castoldi, non ho memoria o traccia del titolo, ma ricordo bene la pagina in cui parlava dell’ironia. Diceva che l’ironia permetteva la distanza da quello che eravamo abituati a leggere e vivere senza pensarci, costringendoci quindi a ripensarlo.
Ecco, il femminismo è quel movimento che mi dà gli strumenti per ripensarmi, che fornisce l’ironia per rileggermi come donna con buona distanza dai modelli di altre donne.
Ti è mai capitato di essere discriminata sul lavoro o a scuola per via del genere?
Mi è capitato più volte di lavorare in luoghi dove la maternità era vista come una scelta deliberata della donna di ricevere uno stipendio in una condizione privilegiata, sia da colleghi uomini che donne; qualche anno fa feci un colloquio in cui il mio referente mi chiese se avessi una relazione, o se avessi il desiderio di rimanere incinta. Sai, sono quelle occasioni in cui ti chiedi: se volessi essere padre, ci sarebbero tutte queste questioni?
Nel tuo quotidiano paghi uno scotto personale per via del genere?
Direi di no, se escludiamo le volte in cui sono a cena fuori e la carta dei vini viene consegnata all’uomo – ma ehi, sono io quella che ne sa di più.
Ti è mai capitato di essere l’unica donna nel posto di lavoro?
No, mi è accaduto più spesso il contrario, ossia lavorare in posti di sole donne.
Quali pensi siano i tuoi limiti in quanto donna? Che cosa potrebbe aiutarti a migliorare il tuo lavoro?
È un limite, ma anche un pregio: la tensione tra il voler essere e tenere insieme la famiglia e il rischio che questa tensione non consenta la libertà che tanto hai fatto fatica a conquistare. Credo sia un mix tra l’essere donna, migrante e freelance ☺.
Che tipo di sostegno ci vuole per raggiungere la tua passione, il tuo sogno, che cosa farebbe davvero la differenza?
Se intendi un sostegno esterno, ti direi qualcuno che pulisca casa e mi prepari la cena quando non ho voglia: che si prenda cura del mio spazio mentre io mi prendo cura dei miei interessi, insomma. Se invece intendi qualcosa di più “motivazionale”, ti direi qualcuno che ogni 6 mesi mi aiuti a fare il punto tra le cose che sto facendo o che non sto facendo in relazione alle mie competenze.
Quanto pensi influisca la politica nel femminile o sulle minoranze? Ci pensi mai quando vai a votare?
Sempre: ogni volta che c’è un referendum o un’elezione il mio voto sta dalla parte di chi propone una politica evolutiva e difensiva delle donne.
C’è un libro, un gesto, una persona che con le sue parole, o con il suo atteggiamento ti ha ispirato? Qualcosa che ti ha influenzato positivamente anche solo facendoti riflettere in proposito? Ce ne parli?
A parte la già citata Moran, e Arianna Huffington – che mi ha dato saggi consigli sull’equilibrio vita-lavoro, mi viene in mente un gruppo di donne di Torino, mie amiche, molte delle quali note a C+B: sono Annamaria, Daniela, Francesca, Enrica, Marianna, Beatrice, e altre donne che si muovono nel mondo con integrità e completezza, mostrando l’esempio migliore di collaborazione, competenze e umanità che potrei desiderare.
Come sono divisi i compiti a casa tua? Come concili il tempo dedicato al lavoro, con quello dedicato alle persone che ami? Sono cambiate le cose rispetto alla tua famiglia d’origine: come erano divisi i compiti tra i tuoi genitori?
A me è riservata la cucina, a lui l’asse da stiro: il resto cambia a seconda delle esigenze e dei rispettivi impegni.
Sulla conciliazione tocchi un tasto dolente: l’autonomia economica è un campo in cui faccio molta fatica a essere indulgente, e questo vuol dire che ho spesso dedicato moltissimo tempo a lavorare per placare le ansie togliendo testa e tempo alla coppia. Ci sto lavorando, aiutata anche da una maturità professionale ed emotiva che prima non avevo. Questa difesa matta dell’autonomia mi è stata trasmessa anche da mia madre, che con alcuni esempi e a parole metteva noi figlie e il marito davanti all’esigenza di collaborare affinché anche lei, come donna, avesse i suoi spazi: poi non sempre ci è riuscita, ma l’imprinting è nato da lì.
Sapevi che l’associazione tra il rosa e il femminino è avvenuta in tempi relativamente recenti e per una scelta arbitraria? Che idea ti sei fatta/o rispetto agli stereotipi di genere?
Ho ricominciato a usare il rosa negli ultimi due anni, nella mia testa era un colore frivolo; con gli abiti mi sento a mio agio, e non indosso mai pantaloni; il mio primo autoregalo è stato un trapano. Sono passaggi che ho vissuto più o meno come conquista a seconda del momento in cui sono avvenuti: spesso basta un solo, primo dubbio per farsi le domande giuste, e per combattere gli stereotipi occorre fare proprio questo, dubitare.
In che cosa ci si può impegnare per cambiare le cose? Ci racconti una cosa semplice che possiamo cominciare a fare subito?
Smettere di dire “gli uomini”, perché automaticamente stiamo disegnando “le donne”.